Perchè Romano dà fastidio ai poteri forti?
Vincenzo A. Romano
L’ultima sparata contro il Governo di cui fa parte è del bel tenebroso Rutelli che, dopo avere gigioneggiato l’altra sera a Ballarò, mentre avrebbe dovuto difendere perinde ac cadaver il governo di cui fa parte, non si perita, al contrario, di attaccarlo ogni giorno come nell’uscita fatta ieri contro il provvedimento riguardante gli accertamenti per area di settore, altro passo verso una equità fiscale, lotta all’evasione e possibilità di una conseguente distribuzione del reddito.
Cicciobbello sapeva, o almeno avrebbe dovuto sapere, che un tale tipo di indagine fiscale non è obbligatoria in quanto chi non vi aderisce continua per la sua strada ed è soggetto (sarebbe meglio dire probabilmente soggetto vista l’esiguità dei controllori) ai normali accertamenti cui sono esposti tutti i cittadini compresi quelli a reddito fisso, ma evidentemente doveva raggiungere due scopi.
Farsi bello di fronte ai commercianti e piccoli industriali del nord che comunque non lo voteranno mai perché –nel caso- tornerebbero a votare i partiti veramente vicini alla vecchia DC.
Dare un’altra spallata a Prodi non si sa, a questo punto, se perché speri di diventare il capo del fantomatico PD prossimo (s)venturo oppure perché sia davvero allettato dall’idea di un governissimo con Casini e tutti i rimanenti brandelli del Centrodestra -che ci stessero- in modo da aprirsi la strada di Palazzo Chigi.
Assistiamo, da Montezemolo a Berlusconi, passando per tutti i gradi istituzionali ed extra istituzionali ad un tiro al piccione che ha come bersaglio Prodi e ci azzardiamo a dare alcune risposte.
In questo governo, come in quello inopinatamente e disgraziatamente fatto cadere da Bertinotti, Romano Prodi è l’unica persona che sia contemporaneamente: politico, economista e servitore dello stato.
E’ quello che noi chiamiamo “l’unico presidente del consiglio possibile in questa indescrivibile situazione”.
Che sia un politico non è messo in discussione perché ha dimostrato di avere assimilato la lezione classica secondo la quale “la politica non è una guerra fra nemici, ma un orizzonte in cui le società si devono misurare accettando un confronto che ha per posta lo sviluppo”.
Lo ha fatto nel precedente governo (che ai Comunisti è costato una scissione), lo ha fatto in Europa da Commissario in un momento delicatissimo che ha visto l’11 settembre e l’ autoisolamento Americano contemporaneamente all’allargamento dell’Unione.
Lo sta facendo adesso temperando il rigido liberalismo di Padoa Schioppa con le sacrosante richieste di un paziente Diliberto. Che sia un economista –fra l’ altro vicino alla piccola impresa di cui fu teorico ed artefice durante la crescita dell’economia- ce lo dimostra cercando di riportare a galla un poco di sana economia keynesiana tesa allo sviluppo nella massima occupazione dopo i bagordi dell’ iper-liberismo berlusconiano ed i conti truccati di Tremonti.
Ce lo conferma –e per questo è continuo bersaglio di Confindustria e dei poteri forti in genere- cercando di riportare un poco di Stato in una economia corrotta da finanzieri ladri , dalle false liberalizzazioni e dalle privatizzazioni indecenti. Cercando di accorpare banche da una parte e sguinzagliando dall’altra Bersani perché le inglobi in regole certe. Utilizzando Di Pietro come una sferza contro gli appalti allegri e cercando vie diverse per realizzare grandi opere contestatissime, talvolta a priori, da ecologisti di professione ed ascoltando di contro quelli che hanno veramente interesse ad uno sviluppo compatibile.
Che sia un servitore dello stato, del tipo di quelli che la Francia si crea con apposite scuole, pare sia di evidenza indiscutibile se proprio i nemici acerrimi lo chiamano con un epiteto che altrove è vanto ed in Italia scherno: grand commis.
Può un uomo del genere, amato come un parroco di campagna e che si è preso da solo quattro milioni di voti alle primarie, piacere a politici ignoranti e posticci ed industriali arruffoni?
Certamente no.
Perché tenta di mettere ordine, come un buon padre di famiglia, in una famiglia sgangherata, sguaiata e piena di debiti che non vuole rinunciare al tenore di vita fasullo che si era creata.
Noi questo lo abbiamo capito ed è per questo che non si tira la corda, ma si discute, si chiede e si rinuncia, si richiede e si ottiene una parte, si fa politica compatibilmente coi pochi stracci che sono rimasti dopo che la destra si è venduta i gioielli di famiglia ed indebitata sino allo stremo.
Ma gente come Rutelli pare non capire, e forse non capisce, tutto questo perché magari dopodomani se non domani è pronta a fare il grande centro dove tutti rimangono a galla e chi non ce la fa si fotta.
Berlusconi dal canto suo fa il suo mestiere; è vecchio e teme che gli scappi l’ultima occasione. Altro che Vittoria Brambilla il posto non lo molla ed ieri lo ha confermato rimproverando Casini (tornato agli equilibrismi della Balena Bianca) di non stargli appresso.
Montezemolo deve, per compito istituzionale, chiedere e richiedere qualunque sia il governo ed almeno non lo fa con la protervia che usava Costa. I rappresentanti degli industriali –piccoli o grandi che siano- chiedono perché sono abituati a farlo.
I sindacati ed i pochi partiti ancora seri: contrattano come dovrebbero fare tutti.
Ma è più facile fare il tiro al piccione; qualche volta si fa centro e comunque si rimane a galla anche alla presidenza di un partito che manda le proprie tessere a casa, anche a chi è iscritto ai Comunisti Italiani.