martedì 22 maggio 2007


Meglio un libro che cento…caffè

Vincenzo A. Romano

La prima volta che mi accostai al Don Chisciotte di Pierre Menard ero assolutamente ignaro, ma ciò dipendeva comunque dal fatto che il volume non fosse rilegato ma disordinatamente squinternato, che si trattasse non dell’inizio del romanzo bensì dell’ incipit di un frammento del IX capitolo che in seguito potei completare solo con altri brandelli del dodicesimo e del trentottesimo.
Una lettura incompleta, lontana dalle reminiscenze del Cervantes, ma che mi aveva rapito.
Diversa e traumatizzante, di contro, la lettura del volume di Ray Bradbury Fahrenheit 451 con le sue squadre di pompieri iconoclasti ossessivamente impegnati a distruggere tutto il sapere scritto (Orwell in 1984 si occuperà di quello televisivo) in cui il Milite Guy Montag rimane l’ultimo epigono di una cultura destinata ad estinguersi nell’ignoranza, concausa della distruzione nucleare.
Ogni volta vado, con l’immaginazione, alla notte dei roghi dei libri , quel 10 maggio del 1933 ad opera dei nazisti e mi torna alla mente una copia tedesca ( o viennese) la cui copertina, era il Die Blendung di Canetti (L’accecamento , in italiano: Auto da fè) “con il professor Kien che ride così forte,come non ha mai riso in tutta la sua vita, mentre il fuoco, di un rosso non vistoso sul fondo avana, avvolge lui e i suoi libri, e sale fino a lambire il nome dell’autore sotto il titolo leggermente incurvato, come sospinto verso l’alto dall’aria calda. La firma “Kubin” è ben leggibile sulla destra, parallela alle fiamme che si alzano dai dorsi di alcuni volumi massicci.”
Per questo non mi piace, eppure amo e ho sempre amato Olmi, quando conclude il suo percorso con una frase che non riesco a comprendere, nemmeno nel suo supposto paradosso. Perché non è vero e non credo che “tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico”.
Nella sua impossibilità reale amo la Biblioteca di Babele col suo numero indefinito e forse finito di gallerie esagonali, i vasti pozzi di ventilazione, le basse balaustre di protezione.
Amo la Biblioteca di Alessandria col suo mito di settecentomila rotoli, un immenso sapere arso, come è destino dei libri, in una notte di sciagura.
Immagino Calvino, intento al suo Se una notte d’inverno un cacciatore, darsi licenza e dedicare un capitolo al romanzo del poeta cimmero Ukko Ahti “Sporgendosi dalla costa scoscesa”.
E’ la fantasia che corre ad inseguire libri scritti, pensati, iniziati o incompiuti; un mondo impagabile per l’uomo da quando Cadmo ed Armonia ci fecero l’impareggiabile dono dell’alfabeto.
Immagino, vedo e risolvo con un don Isidro cieco e sul fondo di una cella i casi polizieschi che gli assegnano la fantasia di Borges , un altro cieco ma curatore di biblioteche, e Bioy Casares.
Nessuno aveva pensato, fra i folli inventori di romanzi polizieschi, un investigatore cieco e rinchiuso in un carcere; ma don Isidro ha il dono supremo della mente che vede dove gli occhi non arrivano e le informazioni sono pettegolezzi riferiti da uomini distratti.
Per questo non polemizzo sui libri inchiodati, ma fluttuo fra quelli che sono e quelli che sarebbero potuti essere, che vivono in quanto e solo perché qualcuno li ha pensati. E me ne basta uno solo in luogo di tutti i caffè del mondo.

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Naturalmente , a parte il volume di Bradbury, si tratta libri che esistono solo perché se ne parla in altri libri. Sono libri inventati, libri immaginati, libri che nessuna biblioteca o libreria, seppur raffinata, esporrà mai.
Libri, in definitiva che mai furono stampati.
Così Il “Don Chisciotte” di Pierre Menard di cui parla Jorge Luis Borges in “Fictiones”; il romanzo del poeta cimmero Ukko Ahti: “Sporgendosi dalla costa scoscesa”, inventato da Italo Calvino che gli dedica un capitolo del suo: “Se una notte d`inverno un viaggiatore”.
Così sono pensati, soltanto pensati, sia The Anglo-american Cyclopaedia (New York 1917) che l’articolo su Uqbar e sui suoi abominevoli specchi, trovato per caso -su ulteriori quattro pagine della famosa Cyclopaedia- da Bioy Casares sul XLVI volume della Anglo-american Cyclopaedia, che aveva, a differenza degli altri non 917 pagine, ma 921: quelle appunto che contenevano la storia di Uqbar. (V.A.R.)